LA GUERRA DI TRINCEA

Tema di Francesca Roveda del quinto anno dell’Istituto Tecnico Agrario

Le parole di questa giovane studentessa, le sue riflessioni, in questi drammatici momenti in cui la guerra torna con dolore nelle nostre cronache quotidiane, ci fa sperare che le nuove generazioni possano costruire un futuro diverso

 

Secondo Eric J. Leed la guerra di trincea rappresenta un cambio radicale nella concezione della figura del soldato. Infatti, in trincea, il soldato non è colui che attacca, ma colui che difende e attende.

Tuttavia, il nemico dal quale proteggersi non è più rappresentato dall’esercito straniero, bensì da tecnologie belliche impersonali. Entrambi gli eserciti si sono quindi ritrovati a difendersi da armi senza volto che colpiscono indistintamente uno e l’altro. In questo contesto, inevitabilmente, ci si ritrova a immedesimarsi nel nemico: il soldato dalla divisa diversa costretto e colpito da uguale destino. Tuttavia, questa identificazione nell’altro porta alla crisi della propria personalità, che non coincide più con il concetto esaltato di soldato attaccante che difende la patria, con conseguenti nevrosi e malattie psicologiche.

La guerra di trincea ha portato anche alla rottura di numerosi rapporti. Primo tra tutti la separazione netta tra soldato e ufficiale: colui che attende la morte e colui che spinge all’attacco secondo canoni antichi e immagini tradizionali. In secondo luogo l’estraniazione da una società con la quale, ormai, un soldato di trincea non condivide più alcun ideale. E infine il rapporto con la morte: non trovando più alcuna giustificazione per le sue azioni, un soldato può solo attendere una morte inaspettata e impersonale.

Da sempre il concetto di soldato è rappresentato come colui che, con forza inesorabile, scende in battaglia per onore, patria e libertà.

Ne è un esempio Achille, che combatte a Troia per guadagnarsi l’immortalità.

Ne è un esempio Orlando con le sue gesta narrate ne “La Chanson de Roland”, che per onore e amore patriottico combatte al fianco di Carlo Magno e, sempre Orlando, ne “L’Orlando Innamorato” di Matteo Maria Boiardo che combatte per amore.

Bardi, poeti, scrittori, drammaturghi cantano e descrivono i propri personaggi come soldati pronti a scendere in campo per ideali saldi e sentiti. Un tempo si combatteva corpo a corpo, spada contro spada, faccia a faccia con il nemico, talmente vicini da poterne ascoltare i sussurri.

Dalla Prima Guerra Mondiale in poi la guerra è diventata sempre più schiva e subdola. Si è addirittura premiato con un Nobel colui che ha creato il gas letale che ha ucciso milioni di uomini in un colpo solo perché ha reso la guerra “meno cruenta” e ha permesso di avere meno perdite nel proprio esercito.

Dal 1914 abbiamo iniziato a combattere a distanza giocando a chi aspetta più a lungo.

Nessuno offende, tutti tacciono, tutti aspettano, in silenzio, in un fosso lungo chilometri.

Ed ecco che crolla il concetto antico di soldato: da offensore diventa difensore di se stesso, perché non ha più una personalità, è un uomo vuoto che non riesce a identificarsi in ideali ormai anacronistici: un’armatura senza soldato, come narra Calvino.

Anche i rapporti con lo Stato Maggiore si sono ridefiniti, perché a combattere non vanno i generali, ma padri, fratelli, figli, operai, contadini, … e verso la fine della Prima Guerra Mondiale anche la classe ’99 è stata costretta alla trincea.

I due livelli non parlano più la stessa lingua. I condottieri di un tempo sono crollati, non esiste più un Enrico V che, come ci narra Shakespeare, passa di tenda in tenda, da sentinella a sentinella che dà il buon giorno a ciascun soldato e che chiama i suoi uomini Amici, Fratelli, Compatrioti e che si fa carico di ogni loro fatica per incoraggiarli e per non lasciali soli al proprio destino. Ufficiali e tenenti non sono condottieri, sono solo figure lontane che dirigono burattini e spostano i carri armati del Risiko su una cartina e che non sanno leggere il dolore degli uomini che combattono.

Si parlano lingue diverse anche nella società, perché anche i cittadini non sanno realmente cos’è la guerra, non hanno vissuto notti insonni in una coperta di gelo infernale senza sapere cosa sarebbe potuto accadere l’indomani. I cittadini possono solo leggere i giornali e sperare di non essere catturati dalla propaganda e dalla storpiatura delle notizie trasmesse con una patina di finzione stesa dalla politica. Il poeta e scrittore D’Annunzio racconta dell’impresa di Fiume come un intervento essenziale per la vittoria italiana nella Prima Guerra Mondiale, al quale lui stesso ha partecipato e dal quale ne è uscito da eroe, ma in realtà è stata un’operazione fallace che non ha portato alcun aiuto alla situazione italiana. Gli eventi vengono storpiati e narrati a seconda di quello che si vuole trasmettere, per questo i soldati non sono riusciti a riunirsi alla folla che acclamava grida alla battaglia.

La guerra non si legge tra le righe di un giornale, nessun articolo descrive realmente l’angoscia e il peso soffocante che schiaccia costantemente ogni certezza ogni speranza. Una volta crollati gli ideali per cosa si muore? Esiste una risposta? Morire per la patria era un onore, l’esercito di Sparta si basava su questa concezione e i trecento soldati alle Termopili hanno combattuto secondo questo ideale.

Ma un soldato al fronte per cosa combatte? Per cosa muore? Non è onorevole, è una morte omologata senza alcun principio. Così la si attende giorno dopo giorno, e quando ci si sveglia al mattino e si è ancora vivi

“M’illumino d’immenso”

perché la morte non è arrivata, ma alla sera, quando tutto tace e si sentono i segreti mormorii dell’opposta scolta, ricomincia l’attesa di un destino segnato ma improvviso.

Siamo abituati a studiare gesta di eroi e a percepire come tali coloro che rispettano il nemico, lo onorano e lo acclamano come grande combattente. Forse, però, gli eroi di guerra non sono mai esistiti, non possono esistere: “eroe di guerra” è di per sé un ossimoro. Anche in passato la guerra non era combattuta da re, anche ai tempi dei Greci e dei Romani si giuocava con la vita di povera gente. Gli eroi sono coloro in grado di esprimere i propri ideali senza bisogno della violenza, senza imporsi come autorità, ma facendosi riconoscere come tali, persone autorevoli, non autoritarie che si preoccupano del bene comune facendosi carico di responsabilità e di scelte che nessun altro è in grado di compiere. Ma dato che la guerra non si può eradicare dall’essere umano, un eroe deve essere in grado anche di riportare un combattimento ai suoi antichi principi, perché non rimanga solo un gioco sporco tra potenze che danzano su un cimitero.